Recensione di Matteo Pratticò

Recensione su Moby Dick di Herman Melville

 

Mi sono interessato all’opera di Melville in piena adolescenza, come molti altri prima di me.
Interessante fin dalle prime pagine. Fino a quel momento non avevo mai letto una storia scritta in prima persona, come se fosse l’autore stesso a vivere e a ricordare quella tragica esperienza. La voce narrante, Ismaele, ci narra con stupore, ammirazione, terrore e slancio la lotta fra l’uomo e la bestia: Moby Dick e Achab.

La caccia viene descritta minuziosamente, insieme all’arte, la forza e l’ingegno umano impegnati al massimo per vincere la sfida contro le balene, che non è solo “ucciderle” con gli arpioni, ma anche trascinarle, issarle sulla nave, ricavarne l’olio e altre materie preziose.

Achab e Moby Dick portano il tema dell’ossessione attraverso una caccia e uno scontro epico. Achab, capitano della baleniera Pequod, per lunghi giorni di navigazione non si fa vedere dall’equipaggio. Quando finalmente si palesa spiega che il suo scopo non è la caccia, ma è Moby Dick, la balena bianca che gli ha strappato la gamba durante l’ultimo viaggio. È singolare come con il tempo le due parti sembrano scambiarsi di ruolo: dapprima assistiamo alla caccia al mostro portata avanti da un uomo, ma poi diventa chiaro che l’uomo, spingendosi sempre più all’inseguimento, appare più mostro della balena, “colpevole” solo di aver ucciso e mutilato per sopravvivere. La legge della giungla è anche la legge del mare, ma per Achab non conta. Moby Dick è ai suoi occhi un mostro da uccidere per ragioni personali.

Siamo noi umani che cerchiamo la balena, non è lei che cerca noi, senza dubbio. Ma anche se campioni di un’arte crudele, non diversi dai soldati che uccidono sul campo di battaglia, si trova fascino in questi marinai, che sfidano le acque sconfinate degli oceani e la furia dei leviatani.

Achab ci insegna che siamo condannati a cercare il Male, a dargli un nome, a inseguirlo negli angusti oceani del nostro mondo. Ma il male peggiore, lo sappiamo oggi fin troppo bene, si annida dentro di noi. In fondo, ammettiamolo: ci piacerebbe essere Moby Dick, il Mostro di Frankenstein o l’Uomo Lupo. Spesso è più facile rispecchiarci nei mostri finti della letteratura che ammettere di assomigliare ai veri mostri che camminano sulla terra.

 

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